Rivoluzione vien dal latino –revolutio, -onis – e significa rivolgimento, ovvero un mutamento improvviso e profondo che comporta la rottura del modello precedente e il sorgere di uno nuovo.
La Russia ha fatto una rivoluzione e mezza, la prima passando dalla Monarchia, che da poco tempo aveva abolito la servitù della gleba, all’economia dei Soviet; la mezza-rivoluzione è stata quella che ha cancellato la prima adeguandosi, però, ad un sistema economico per niente nuovo, che già si poteva intuire decotto.
Ma le altre? La Jugoslavia ha perso i pezzi, così come, con la mezza rivoluzione russa, è accaduto all’Unione Sovietica. Le rivoluzioni “colorate”, le primavere arabe – con l’eccezione per ora della Tunisia – sono state la transizione a satelliti dell’Occidente o si trovano tuttora in mezzo al guado, dove a scorrere è il sangue.
Rivoluzione, per effetto della molto celebrata Rivoluzione francese, suscita l’impressione di un ampliamento della libertà della popolazione. Un ripartire da capo per rifiorire, dove il sentimento prevalente è che ogni sforzo e sofferenza sarà ripagato dai risultati sperati.
Dove è accaduto questo negli ultimi decenni? Per un po’lo si è pensato in Spagna, ma ora la si vede arrancare con la carovana male in arnese degli altri paesi occidentali.
Il movimento degli indignati, le “occupazioni” negli Stati Uniti e in Israele, le ribellioni greche e romene non chiedono un nuovo modello, chiedono solamente più soldi in tasca e meno corruzione al vertice. In altre parole: “correggete il sistema”, che non è una richiesta rivoluzionaria ma, al meglio, riformista.
L’Islanda è andata molto vicino ad una rivoluzione autentica perché ha stravolto il concetto imperante secondo il quale sono i cittadini a dover reggere il peso delle sconderatezze del vertice. Ha veramente modificato il patto fra rappresentati e rappresentanti, fra elettori ed eletti.
Resistendo alle pressioni e alle minacce internazionali, tramite lo strumento del referendum e il controllo diretto delle riunioni dell’assemblea costituente, i cittadini dell’Islanda si sono sottratti alla dittatura del Fondo monetario e hanno messo in galera i banchieri – quelli non eclissatisi in tempo – responsabili dell’enorme debito estero. Non sono più uno dei paesi più ricchi del mondo secondo i dati di una economia falsata, ma sono in ripresa. Sarebbe stato possibile tutto questo in un altro paese che contasse più dei 325.000 abitanti dell’Islanda?
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Della rivoluzione avremmo più che mai bisogno, di un ripensamento dei sistemi rappresentativi, delle alleanze economiche internazionali, ma se ciò che viene richiesto a gran voce è “crescita” dalla rivoluzione siamo assai lontani.
La prima parola che connoterà la Rivoluzione in questo secolo sarà “diversità“: il recupero dello specifico, geografico e culturale in luogo del modello unico dominante.
La seconda sarà “bisogni” in sostituzione di desideri che, stante la natura umana, sono infiniti.
Del resto, solo riconoscendoci come esseri umani possiamo fare le rivoluzioni, mentre i consumatori possono solo desiderare di consumare di più.
Anche i bisogni crescono, certamente, ma il ritmo nasce dall’individuo e non è manipolabile perché i bisogni hanno come meta la soddisfazione, non la loro infinita moltiplicazione in cerca della mai raggiunta soddisfazione. Si badi bene che i desideri indotti sono spesso diretti verso oggetti standardizzati, prodotti in serie con poco intervento umano. La soddisfazione dei bisogni, al contrario, viene in gran misura da servizi alla persona, per la salute e la cultura, o al patrimonio comune: piani urbanistici, manutenzione di infrastrutture, protezione del suolo e delle vie d’acqua, siti archeologici, edifici antichi, opere d’arte. Ambiti che richiedono lavoratori in carne ed ossa, che maturano una professionalità.
Perché accada questa rivoluzione occorre che, come gli islandesi, ognuno dica a se stesso: IO posso, IO faccio.
E’ patetico sentire critiche e lamentele o insulti e proclami contro le élite anche quando è un milione di persone a gridarli marciando. Un milione di “passivi” in corteo non imprime dinamismo alla società, probabilmente rende solo più astute le élite, e non significa “coscienza politica” ma per lo più insofferenza del presente e paura del futuro.
Decolonizzare l’immaginario dallo strapotere dello spot pubblicitario sarebbe già un buon inizio, volontario e non delegato.
Rivoluzionario.
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Serge Latouche parla di “decrescita” e la promette felice o almeno serena. Ha ragione da vendere.
Purtroppo il vocabolo suona inquietante a chi è dipendente dalla “crescita” e si trova nel mezzo, senza averlo intuito in tempo, di una decrescita subita. Che felice non è, ovvio.
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— l’immagine del “quarto stato” proviene da questo blog
latouche parla di un modo di vivere, perchè quello di oggi è solo sopravvvivere. I movimenti chiedono più soldi in tasca perché conoscono solo il comperare, non il fare. L’automatizzazione ha ucciso la capacità di creare soluzioni, ha lasciato tempo libero che non si sa riempire in altro modo che spostandosi o facendo shopping. I pacchetti turisti e anche le crociere sono solo questo: andare da un posto all’altro comprando souvenir. I viaggi sono un’altra cosa.
Quando si deciderà di far sembra bella la decrescita, si snaturerà il discorso di Latouche facendo una moda del tenere le stanze meno illuminate, del lavarsi la macchina con lo straccio e il secchio e farsi l’orlo ai pantaloni con le proprie manine.
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i non consumatori sono mosche bianche ormai, ecco perchè l’Italia non cambia e si va peggorando. Gli italiani pensano solo a consumare di più, ahimè 😦
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ciao 🙂
Tristemente vero, e consumare, sostengo con convinzione, non significa soddisfare gli autentici bisogni dell’individuo. Troppo spesso si fa, si va, si sfoggia … senza provare alcun piacere. solo perché spinti a questo dall’emulazione, innescata dalla pubblicità.
Alcuni ricorderanno gli spot pubblicitari che magnificavano il prodotto.
Ora talvolta non si comprende nemmeno di cosa trattano, c’è un marchio e una scena che fa sognare, immedesimarsi in quella illusione sullo schermo.
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Questo è uno di quegli articoli che sarebbe bello poter commentare a voce, perché la variopinta tavolozza che hai tracciato innesca moltissimi aspetti, dal sociale, al culturale, all’economico, alle tradizioni, alla famiglia, alla società tutta. Insomma hai fatto quello che di norma fanno i bambini piccoli quando vedono un sasso piatto in un prato: lo alzano e scoprono che sotto c’è un altro mondo, brulicante, diverso, strano, ma affascinante e curioso. Con quello piccolo gesto (alzare e riposizionare il sasso) s’innesca un primo gradino rivoluzionario che stravolge quella entità sottostante e che impiegherà molto tempo per riorganizzarsi come madre natura impone.
L’uomo non è diverso, ma ha perso quel “quid” infantile che lo renderebbe più ricco dentro di sè.
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Mi piace moltissimo l’immagine che hai suggerito! E quello spostamento dei sasso mi ha fatto tornare in mente un libro letto tanto tempo fa. Viaggio a Ixtlan di Carlos Castaneda. Quando Don Juan lo sciamano parla di “spostare il punto di contatto” fra il mondo come lo vediamo e l’altro, quello che ignoriamo. Con un minimo spostamento del vedere si acquisisce, se ricordo bene, anche del potere.
Pensa se spostassimo il ns contatto dal continuo avere all’essere, quanto potere recupereremmo liberandoci della schiavitù del comprare, comprare, comprare… Quanto interesse in più per i rapporti, per esempio. O per l’insieme della società che mi sembra finito sotto zero, anche se si moltiplicano le manifestazioni indignate è solo un rito, poi ognuno cerca di ottenere per sè tutti i vantaggi possibili anche se va contro quello che in piazza ha chiesto per tutti.
ciao 🙂
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