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Con la sua decisione, quindi, Donald Trump rompe il fronte ma, soprattutto, riconoscendo di fatto Gerusalemme come capitale indivisa dello Stato ebraico sdogana e approva la politica degli insediamenti che da decenni Israele conduce a spese dei palestinesi. Se non è più “territorio occupato” Gerusalemme Est, non lo sono neppure le “colonie” dove ormai vive il 10% della popolazione complessiva di Israele.”

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Fulvio Scaglione
La decisione di trasferire l’ambasciata americana nella Città Santa si inserisce nel quadro della nuova guerra fredda. 

Per capire bene la portata della decisione presa da Donald Trump e il significato dello spostamento dell’ambasciata Usa, bisogna prima ricostruire lo status internazionale di Gerusalemme e confrontare quanto pensa su questo Israele de quanto pensa invece il resto del mondo.

Israele sottrasse alla Giordania il controllo di Gerusalemme Est Nel 1967, con la vittoria nella guerra dei Sei Giorni (la città era divisa in due dal 1948, cioè dalla proclamazione dello Stato di Israele e dalla guerra che ne era seguita), dichiarando alle Nazioni Unite che non si trattava di una “annessione” ma piuttosto di una “integrazione giuridica e amministrativa”. Molto presto, però, tutto cambiò grazie a una sentenza della Corte Suprema di Israele che, al contrario, stabiliva che Gerusalemme Est era ormai parte integrante dello Stato ebraico. Nel 1980, poi, il Parlamento di Israele (Knesset) approvò la Legge per Gerusalemme come parte della Legge Fondamentale (Israele non ha una Costituzione in senso proprio) del Paese, dichiarando Gerusalemme capitale unificata dello Stato ebraico. Posizione peraltro condivisa e sostenuta dalla larga maggioranza della popolazione israeliana, come diversi sondaggi hanno negli anni dimostrato.

Il resto del mondo, invece, la pensa in modo ben diverso. Le Nazioni Unite considerano Gerusalemme Est “territorio occupato” e lo fanno dal 1947, quando approvarono la Risoluzione 181 che dice: “La città di Gerusalemme resterà un corpus separatum retto da un regime speciale internazionale e amministrato dall’Onu”. Questa posizione è stata poi sempre ribadita: nella Risoluzione dell’ Assemblea Generale del 1949, nel Rapporto speciale sui diritti dei palestinesi del 1979, nella Risoluzione 63/30 del 2009 (“Tutte le azioni intraprese da Israele, potenza occupante, per imporre le proprie leggi, la propria giurisdizione e la propria amministrazione sulla Città Santa di Gerusalemme sono illegali e quindi prive di qualunque legittimità”) e in ben sei Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, compresa la 478 del 1980 che definiva la Legge per Gerusalemme approvata dalla Knesset una “violazione del diritto internazionale”. Il tutto approvato e sottoscritto, sia pure con diverse sfumature, da Russia, Vaticano, Francia, Regno Unito e insomma da quasi tutti i Paesi presente all’Onu (fanno eccezione la Repubblica Ceca e Vanuatu), compresi gli Usa.

trump-muro-pianto-gerusalemme-capitale/Con la sua decisione, quindi, Donald Trump rompe il fronte ma, soprattutto, riconoscendo di fatto Gerusalemme come capitale indivisa dello Stato ebraico sdogana e approva la politica degli insediamenti che da decenni Israele conduce a spese dei palestinesi. Se non è più “territorio occupato” Gerusalemme Est, non lo sono neppure le “colonie” dove ormai vive il 10% della popolazione complessiva di Israele.

Queste le conseguenze. La domanda vera però è: perché Trump fa questo? E perché lo fa proprio adesso? Che bisogno aveva di prendere ora una decisione così impegnativa e controversa? La risposta è: perché gli Usa cercano la rivincita dopo la pesante sconfitta, militare e politica, subita in Siria da parte del fronte Iran-Russia. E per ottenere la rivincita la Casa Bianca punta sull’asse tra Arabia Saudita e Israele, che già esiste ma va consolidato e ufficializzato. Per arrivare a questo risultato, Trump deve fornire garanzie a Israele e ai sauditi. A Netanyahu fa ora questo enorme regalo politico (agli altri aveva già pensato Obama, garantendo un aumento dei fondi per la Difesa israeliana di 700 milioni di dollari plano per dieci anni). Ai sauditi, già gratificati da forniture enormi di ami, proverà a regalare il piano di pace tra Israele e Palestina annunciato per l’inizio del 2018.

I sauditi infatti non possono passare, soprattutto nel mondo arabo, per quelli che “tradiscono” i palestinesi per scendere a patti con gli israeliani. Ma sede ci fosse un accordo di pace (magari lubrificato, presso il vecchio Abu Mazen, da qualche iniezione di petrodollari) tra Israele e Palestina, anche le vecchie pregiudiziali potrebbero cadere, o almeno attenuarsi. E l’alleanza scudo-israeliana in funzione anti-Iran potrebbe così avviarsi, benedetta dagli Usa che potrebbero così rispondere all’allargamento dell’influenza russa in Medio Oriente che tanto sta limitando, in questi anni, il loro antico predominio.

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