Diffusione dell’automazione e lamento per la disoccupazione/ Il monito di Bill Gates e il ritardo della politica/ L’incombente minaccia sulla classe media
Parlando al think tank The American Enterprise Institute , Bill Gates ha detto che entro 20 anni, un’enormità di posti di lavoro sparirà e sarà sostituita dai software d’ automazione
Nemmeno Leibniz potrebbe affermare che è il migliore dei mondi possibili quello in cui avviene un’abissale dicotomia fra l’esperienza reale e la ricerca delle soluzioni per i problemi.
Ciascuno si rende conto che nell’eseguire le quotidiane normali attività è sempre più a contatto con macchine o costretto a interagire con il computer. Dall’emissione del biglietto di viaggio fino ai controlli in treno, tram, metropolitane l’esistenza della persona-lavoratore non è più la norma della necessità. Lo stesso avviene con le banche, l’Inps e altri uffici pubblici. Gli acquisti, dalla spesa settimanale a quello di libri e perfino medicinali, si possono fare in rete senza intervento del venditore. Mansioni di operai dell’industria, autisti, portalettere, facilitatori che erogano informazioni e assistenza sono drasticamente in riduzione. I barman? Muti metallici distributori di prodotti confezionati nella plastica.
Un ristretto gruppo di esperti nella creazione dei software sostituisce milioni di lavoratori.
La dicotomia consiste nel gaudio con cui la generalità delle persone celebra l’automazione e contemporaneamente si straccia le vesti per la mancanza di posti di lavoro.
La tecnologia è come un’erba infestante. Non intervenendo con azioni di contenimento intelligentemente mirate, abbatte insieme al reddito da lavoro l’ampiezza della base per le entrate fiscali dello stato. Blocca altresì lo sviluppo delle capacità umane, trasformando la persona, caratterizzata dall’apprendere per agire, in un automa obbediente, passivo, attendista dinanzi a un qualsiasi erogatore di prodotti o di risposte. Il bot-software (programma di automazione) ha l’effetto secondario di trasformare l’uomo in bot-man.
Degli effetti dell’automazione, per la verità, ne aveva autorevolmente discusso già negli anni ’90 l’economista Jeremy Rifkin nel saggio La fine del lavoro, il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato. Avrebbe dovuto diventare il centro di un dibattito profondo negli studi sociali. Le stesse organizzazioni sindacali avrebbero dovuto introdurlo nei convegni aperti ai lavoratori. La tecnologia procede veloce, la psiche è lenta nell’elaborare le contromisure.
La vita politica italiana ruota intorno al lamento per la disoccupazione e le promesse di “sviluppo” che tacciono, però, le linee concrete di questa promessa. Si ignorano ostinatamente le conseguenze di quella che è detta “software substitution” per la quale non esiste nemmeno una formulazione in lingua italiana comprensibile a tutti per esprimere il concetto. Vale a dire, per rendere percepibile l’autolesionistica progressiva sostituzione del fattore umano con un programma elettronico dalla quale dovrebbe scaturire l’ovvia domanda fondamentale:
Quale posto si vuole dare al lavoro retribuito nella vita delle prossime generazioni?
Bill Gates ha colpito il gong. Il suono non giunge da un oscurantista nemico dei cambiamenti. Viene da colui che ha influito sulla vita e la civilizzazione tanto quanto l’inventore della macchina a vapore o del motore a scoppio. Se, con stile ma con evidenza, indica la contemporaneità ottusa e ritardataria nell’ approntare i rimedi, né la classe politica né la cittadinanza hanno delle scusanti per non aprire gli occhi e non mettere sotto pressione le meningi.
I soloni dell’economia che bocciano la richiesta del reddito di cittadinanza compiono una cinica azione di sabotaggio dell’urgente possibilità, prevedibilmente transitoria e modificabile con l’avanzare delle riflessioni, di influire sul problema che sta portando alla disperazione intere popolazioni: la povertà da disoccupazione.
La precisazione di Bill Gates, a beneficio di coloro che ancora si sentono privilegiati
“Ora la qualità dell’automazione, i software d’ intelligenza artificiale, stanno migliorando abbastanza velocemente che è tempo di preoccuparsi per i lavori della classe media.”
Ci sono argomenti dai quali istintivamente ci si trattiene perchè manca qualsiasi indizio dal passato per intravedere dove si va a parare. Oppure perchè quello che si capisce fa paura. Il lavoro era direttamente legato alla sopravvivenza, poi è diventato anche campo di espressione di capacità e fonte di gratificazione. E’ con un lavoro che il cittadino si sente “degno” di fronte ai suoi simili. Non è un caso che con l’incertezza lavorativa sale anche il movimentismo, quello fasullo su parole d’ordine neanche ben capite o addirittura false, vedi Ucraina, Che si può immaginare se dal 30 % dei dei giovani disoccupati si passa al 30% di tutta la popolazione in cerca di impiego? C’è ovviamente il problema eocnomico, ma quello potrebbero risolverlo ridistribuendo i megaprofitti nella misura bastante a tenere la calma – la misura transitoria come dici tu del reddito di cittadinanza – ma c’è il problema Monty Pithon … il senso della vita sul quale si è dannatamente in ritardo rispetto alla dinamicità della tecnologia.
Molte bene, scout Maktub , spero lo leggano in tanti…
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Verissimo, fa paura pensarci. Dopo la cancellazione della schiavitù, con l’era industriale essere “lavoratori” è la condizione che ci definisce. Anche i ricchi conservano una qualche forma di professione, ruolo, incarico. Il “nullafacente ” sente non ha un’aura socialmente positiva…
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Grande tema, grande post: poche ma intense righe per sintetizzare l’analisi sul disfacimento di ciò che ci hanno detto “nobiliti l’uomo” e con un cambio consonantico abusato si è trasformato in “mobilita l’uomo”. Sarà vero? Non lo so. Di certo, è diventato necessario quanto il respiro, dato il sistema impostato secoli e secoli fa. Fai bene a rimarcare la sonnolenza concupiscente dei sindacati. Fai bene a dire che la “software substitution” non ha un pari in lingua italica, che solo a pensarla viene la nausea sartriana, ormai metamorfizzati in puro senso kafkiano. E sei bravissima a porre delle domande, di cui una su tutte: “Quale posto si vuole dare al lavoro retribuito nella vita delle prossime generazioni?”. Post/Lavoro/Retribuito: esisteranno ancora queste parole, quindi la loro applicazione. Posto è diventato globo; Lavoro è diventato globulare; Retribuito è sempre stato il lobo dell’orecchio che non sente. Se l’etimologia ci aiuta dal sanscrito (rabh-ate: prendere, afferrare, mentre sam-rabh-ate si traduce con “divenire padrone, impadronirsi) l’antico slavo si pronuncia così: rab-ota (servitù), poi rob-ota (lavoro servile). Che dire? Robot? Insostituibile, ormai, il tuo “bot-man”. Il mio commento lo pongo in una sola parola, quella che estende il significato di lavoro: artificio e in ciò che ne consegue. Ah, una piccola appendice: una volta automatizzati a dovere e dal dovere, a cosa serviranno gli esseri umani, oltre che al consumo perenne? diventeremo tutti filosofi? manutentori di macchine? oliatori del sistema di monadi iper-futuribili? entità e sub.enti di un mondo microchippato? anelatori e inanellatori di sospiri universali? Un artigiano ti saluta con il grande ringraziamento per questo tuo post!
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Forse si dedichera ad altro? Se il lavoro sparisce, significa che deve sparire anche l’essere umano?
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