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continua nella parte seconda “Israele e i divorzi infernali

Sappiamo poco delle dinamiche sociali dello stato di Israele e del rapporto che intrattiene con la cittadinanza. Forse non ce ne curiamo. Attribuiamo a quella realtà così diversa le stesse modalità del nostro paese, tanto è radicata la convinzione che “Israele è  l’unica democrazia del Medio Oriente”. Capita, tuttavia, che si aprano squarci che rivelano meccanismi insospettati e desolanti. Il sistema dei servizi sociali e della politica per la famiglia è uno di questi ed è l’argomento di un articolo che si compone di due parti.
Questa prima parte riguarda i bambini, la seconda si occuperà della coppia: il divorzio, che necessita di autorizzazione del Tribunale religioso, i pesi economici che gravano sul marito, l’impossibilità di espatriare.

 

Bambini sottratti a famiglie in difficoltà

Come nella gran parte dei paesi, i servizi sociali hanno il compito di occuparsi delle persone in difficoltà economiche e dei bisogni specifici dell’infanzia. Il sistema israeliano non è statale, anni or sono è stato privatizzato e ora è demandato, sotto le direttive le Ministero degli Affari Sociali, a varie e potenti fondazioni. La retta mensile per ogni bambino assistito corrisponde a 17.000 shekel, pari a 3.800 euro. Secondo i dati del Ministero sono attualmente 80.000 i piccoli ospitati in istituzioni o in nuclei famigliari affidatari, al ritmo annuale di circa 12.000 nuovi allontanamenti dalla famiglia d’appartenenza. Un numero alto che suscita dubbi.
Addentrandosi nella questione si scopre che gli assistenti sociali, Child Protection Officers cui ci riferisce per brevità con la sigla CPOs, godono di un potere decisionale pressoché insindacabile. Quando una famiglia in difficoltà, perché non ha più un tetto sotto cui vivere o le risorse per comprare di che nutrire e vestire il bambino, si rivolge ai servizi si scontra col volto duro dello stato. Il minore viene classificato “a rischio” e immediatamente sottratto alla famiglia.

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Un caso di malagestione; cliccando sull’immagine si va all’articolo

I Tribunali assecondano le richieste dei CPOs  senza dar corso ad alcun accertamento.
Giudici-timbro, vengono chiamati, per la solerzia con cui sanciscono che il figlio deve essere allontanato dal padre e la madre.

Lo zelo dei CPOs sfiora l’atteggiamento persecutorio e può accadere che venga gonfiata la gravità delle situazioni con accuse nei confronti dei genitori, come possesso di droghe  o maltrattamenti, senza che sia prevista un’audizione processuale nella quale essi possano confutare e dimostrare di essere adeguati al loro compito.

Paradossalmente, se prima il bambino non era concretamente a rischio, lo diventa dal momento in cui viene strappato, improvvisamente e fra le lacrime, alla sua famiglia. L’esperienza è traumatizzante, il futuro si presenta senza figure che diano al bambino la percezione di essere protetto. Non ha a chi rivolgersi per chiedere aiuto nel caso degli immaginabili rischi di angherie, abusi, continuati trattamenti farmacologici sedativi. Perdurando l’affidamento, il minore sviluppa spesso turbe psicologiche e quando, altrettanto bruscamente, verrà riconsegnato alla società troverà aperta una sola porta: l’arruolamento nelle forze armate israeliane.

E’ una scoperta che risponde alla domanda posta più volte scrivendo di questioni israeliane, in particolare nel post ” Come addestra i soldati Israele per renderli così?” sulle incredibili angherie cui essi sottopongono i Palestinesi. Qualunque  sia la forma di addestramento o gli ordini ricevuti, i militari che provengono da questo tipo di vissuto saranno gravati da sofferenze, rabbia, desiderio di rivalsa per i quali gli indifesi lavoratori, donne, vecchi, ragazzi palestinesi transitanti ai check-point saranno  un comodo capro espiatorio.  

L’intervento dei CPOs può avvenire anche su richiesta di terze persone, solitamente dei famigliari che trovano nel loro metodo autoritario e insindacabile un modo per regolare diatribe famigliari. Nel video qui sotto, il caso recente di Hana, cittadina canadese emigrata in Israele. Questo è l’ Aliya: un passo da cui non si torna indietro, è detto nel video.(ndr. per qualche idea sulla complicata legge al riguardo vedere qui) Una volta ottenuto il passaporto israeliano si è come presi in trappola, non si può più uscire. Ma dopo qualche mese, Hanaa si è pentita e ora vuole tornare nel suo paese natale, con i due figli essi pure nati in Canada, e là partorire – tra quattro mesi – il suo terzo bambino.
I suoi genitori, però,  si oppongono. Hanno ottenuto un ordine di No Exit: il divieto di lasciare lo stato insieme ai figli. Ribellandosi alla costrizione, Hana ha tentato di partire. E’ stata bloccata in aeroporto  (
video1). Rifugiatasi in casa di amici, è stata rintracciata: sono intervenuti 15 agenti per terrorizzare una donna incinta e due bambini. Rappresentanti di organizzazioni umanitarie l’hanno rintracciata, l’avvocato l’ha aiutata ad affrontare il lungo interrogatorio alla stazione di polizia, ma il peggio è avvenuto. I bambini le sono stati tolti e affidati “temporaneamente” ai nonni.(video2).
Perché in Israele ciò è legale: non esiste legge che vieti ai servizi sociali l’abuso di separare violentemente i
figli da genitori incolpevoli, ed esiste la legge che sembra fatta apposta per impedire al ritornato nella Terra Promessa di andarsene quando lo desidera.

Per tutte queste notizie,  sono debitrice a Marianne Azizi, cittadina britannica che da anni è in lotta con lo stato di Israele per potersi ricongiungere al marito, “intrappolato” nelle spire del tribunale religioso e delle norme statali sulla famiglia. La sua storia sconvolgente sarà argomento della seconda parte di questo articolo.

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